Cos’è la lombalgia?
La lombalgia, o mal di schiena, è il dolore riferito tra il margine inferiore dell’arcata costale e le pieghe glutee inferiori con possibile irradiazione posteriore alla coscia, non oltre il ginocchio. Il dolore che s’irradia dal gluteo oltre al ginocchio si definisce sciatalgia. L’aspetto epidemiologico è rilevante: l’80% della popolazione è destinato a un certo punto della vita a presentare lombalgia; è il sintomo più frequente nell’uomo dopo il raffreddore, la quinta causa di ospedalizzazione e la terza di intervento chirurgico.
In media, ogni medico di medicina generale visita quotidianamente due/tre pazienti con lombalgia, che è anche il motivo più frequente per cui ci si rivolge a un ortopedico o a un neurochirurgo. La fascia d’età più colpita è quella tra 55 e 65 anni. Com’è facile intuire, le ricadute sociali ed economiche sono enormi; ai costi diretti per le terapie si aggiungono quelli indiretti, conseguenza del calo della produttività lavorativa. La lombalgia è la principale causa di giornate di lavoro perse tra quelle dovute alla salute.
Come si definisce la lombalgia?
Una prima definizione fa riferimento alla durata del sintomo: fino a un mese si parla di lombalgia acuta, da uno a tre mesi si definisce subacuta e cronica per durate superiori. Un’altra distinzione importante è quella tra lombalgia specifica o aspecifica. Nel primo caso, il dolore è correlato a una patologia organica della colonna e la causa-effetto è chiara: si tratta di patologie congenite, traumatiche, infettive, tumorali, metaboliche e alcune malattie degenerative. Gli esempi più comuni sono tumori, infezioni, fratture vertebrali traumatiche o cedimenti vertebrali su base osteoporotica, ma anche stenosi, ernia discale o spondilolistesi.
Quando l’eziologia non è vertebrale, può trattarsi di patologie vascolari, del pancreas o reno-ureterali. Tutte queste forme caratterizzano però solo il 10-15% per cento dei casi di lombalgia, che molto più spesso è invece aspecifica.
In questo caso, si parla di fattori di rischio che possono essere:
- individuali (sedentarietà, fumo, obesità)
- psicosociali (stress, scarsa realizzazione)
- psicopatologici (ansia, depressione)
- occupazionali (fisici, psicologici)
- o alterazioni rilevabili da esami di diagnostica per immagini (degenerazione discale, sbilanciamento della colonna)
Cosa deve fare il medico?
Quando un paziente si presenta dal medico affetto da lombalgia acuta, il primo compito del clinico è di escludere la specificità del sintomo, ossia la presenza di patologie gravi, sia di natura vertebrale sia di natura non vertebrale (ex. aneurisma aortico). Ci sono a questo proposito alcuni dati clinico-anamnestici chiamati «red flags» (segni di allarme) da escludere (vedi box 1): se sono presenti, è importante consigliare accertamenti diagnostici, radiologici o di laboratorio e indirizzare con sollecitudine il paziente dallo specialista della malattia sospettata. Fortunatamente, nella maggioranza dei casi, le «red flags» non sono presenti e la lombalgia acuta può essere ritenuta aspecifica.
Il medico deve dunque demedicalizzare il sintomo e rassicurare il paziente, motivandolo a rimanere attivo, a evitare l’allettamento e a non lasciare il lavoro. Nel caso di lombalgia subacuta, quando il dolore e la limitazione funzionale sono importanti, può essere proposto l’uso di farmaci analgesici, trattamenti fisioterapici o manipolazioni; le terapie fisiche non sono invece efficaci e non bisogna prescrivere l’utilizzo di corsetti.
La cronicizzazione della lombalgia avviene nel 5% dei casi. Dopo aver escluso cause specifiche, è opportuno (fin dal subacuto) indagare l’esistenza di fattori psicosociali e occupazionali, che siano il sintomo di una disfunzione psicofisica.
Tra questi fattori, i principali sono:
- il catastrofismo
- la paura / evitamento del movimento
- ritiro dalla vita sociale («yellow flags»)
Influiscono poi dei fattori di rischio legati all’attività lavorativa, denominati «blue flags»:
- elevata richiesta
- poca autonomia
- basso apprezzamento degli sforzi
- scarsa soddisfazione
- attribuzione del dolore al lavoro
- scetticismo in merito al ritorno al lavoro stesso.
A volte ci si trova di fronte a fattori ancora più gravi, che rientrano nell’ambito della psicopatologia; vengono dette «orange flags»:
- ansia
- depressione,
- tentato suicidio
- disturbi della personalità e abuso di sostanze, la cui presenza necessita la consulenza psichiatrica.
L’iter terapeutico della lombalgia cronica deve considerare l’eventuale specificità del sintomo, la durata e intensità del dolore, il grado di disabilità, la risposta a eventuali terapie eseguite in precedenza e il volere del paziente. Varie sono le opzioni, ciascuna delle quali deve essere attentamente valutata: la terapia farmacologica (anche infiltrativa), la terapia riabilitativa (con approccio bio-psico-sociale* se necessario), manipolativa e la chirurgia.
* Sulla base del grado di disabilità del paziente, prevede un trattamento multidisciplinare finalizzato alla modificazione degli aspetti cognitivi e comportamentali disfunzionali tipici del dolore cronico.